Il Museo della Carta del Borgo dei Cartai

Camminando all’interno del museo è possibile ripercorrere l’intero ciclo produttivo della carta così come avveniva a partire dal XIII secolo ad opera deiMASTRI CHARTAI, dall’arrivo e lo stoccaggio della materia prima, gli STRACCI, fino al prodotto finito, la CARTA.

La produzione di quest’ultima richiedeva ampi spazi per i tanti macchinari utilizzati negli altrettanti passaggi necessari a trasformare gli stracci in CARTA.

Anche le figure legate a questo mercato non erano poche, a partire dagli STRACCIAROLI, coloro che raccoglievano gli stracci appunto, vale a dire stoffe vecchie e abiti malandati non più utilizzati. Si preferiva di gran lunga il lino e, in generale, stoffe di colore chiaro (non di rado infatti venivano lasciate esposte al sole a sbiancare).

Quando gli stracci, o CENCI, giungevano in fabbrica erano sottoposti ad una prima selezione che consisteva nella PULITURA degli stessi: in un primo momento venivano disfatte cuciture, eliminati bottoni, fibbie e qualsiasi elemento potesse non garantire la buona qualità della carta e, in seguito, gli stracci venivano battutie raschiati in modo da eliminare sporcizie varie.

In base alla qualità i panni venivanocatalogati: erano scelti solo gli stracci considerati BONI mentre quelli GROSSI (grossolani, non fini) o VERGATI (non lisci o poco omogenei) venivano riposti nei rispettivi cassoni di raccolta. Lo scarto era messo da parte per essere utilizzato nella produzione di carta grossolana da imballo.

La seconda fase, tra le più importanti del ciclo produttivo, aveva una doppia funzione, cioè quella di eliminare la sporcizia che non era venuta via con le preliminari azioni di scrollatura e raschiaturae quella di iniziare la reale trasformazione della materia prima. Gli stracci venivano infatti ammucchiati e bagnati con un’abbondante quantità d’acqua. Questa operazione, detta MACERATURA, durava diverse settimane e faceva si che le sostanze organiche iniziassero una lenta putrefazione fino alla loro completa eliminazione così da mantenere esclusivamente la sostanza cellulosica, elemento base della carta. Questa operazione, non priva di inconvenienti, come la produzione di calore e cattivi odori dovuti alla putrefazione delle sostanze organiche, prevedeva un periodico mescolamento degli stracci e la necessità di mantenerli costantemente bagnati. L’utilizzo di cenere di legna o di ossido di calcio (che al contatto con l’acqua sviluppa un forte calore) potevano aiutare, a seconda della stagione e del tipo di materia prima, a regolare meglio la macerazione.

Prima di essere sottoposti all’azione delle pile a magli multipli, i tessuti venivano tagliati in grossipezzi. A questo punto gli stracci,divenuti ormai una poltiglia, venivano versati nelle vasche per essere ridotti in PASTA DA CARTA.

Questa trasformazione avveniva grazie a delle PILE IDRAULICHE A MAGLI MULTIPLI. Si tratta di un grande macchinario di legno costituito da due pile legate ciascuna a tre grossi pestelli (magli)a sezione rettangolare, simili a enormi martelli. Ciascun gruppo di magli si muove all’interno di una propria vasca dove sono adagiati gli stracci macerati. Questi pestellisono sorretti da aste e collegati ad un albero a camme, ovvero un tronco di legno posto in orizzontale e dal quale sporgono dei parallelepipedi, anch’essi in legno. La rotazione del tronco attorno al suo asse, la posizione delle camme sull’albero e il differente peso dei magli regolano il sollevamento alternato di questi ultimi, con un ordine di battitura che solitamente era il seguente: pestello esterno, interno e, infine, pestello centrale. La forza motrice di questo grande macchinario era la corrente idrica (le GUALCHIERE, ovvero le fabbriche di carta, erano infatti poste al di fuori delle mura cittadine e in prossimità di corsi d’acqua): questa azionava la ruota a palette e il movimento veniva trasferito a sua volta all’albero a camme e, da questo, ai magli.

La graduale triturazione degli stracci (la prima fase di sfilacciatura poteva durare dalle dodici alle trentasei ore) e il suo grado di raffinatezza erano stabiliti dalla presenza di più pile e dalla diversa tipologia delle guarnizioni dei magli. La testata con grossi chiodi appuntiti permetteva una sfilacciatura grossolana degli stracci (PILA A DIGROSSARE)mentre quella con chiodi a testa piatta garantiva una sfilacciatura più raffinata (PILA A RAFFINARE)e portava all’ottenimento di una poltiglia biancastra, la PASTA DI CARTA, costituita dalle singole FIBRE CELLULOSICHE del tessuto.

Durante la lavorazione, tramite un semplice sistema di canalizzazione delle acque, gli stracci venivano lavati abbondantemente con acqua corrente per eliminare il sudiciume residuo della macerazione. Il passaggio da una vasca all’altra avveniva attraverso un mestolo di rame.

La poltiglia ottenuta tramite questi pestaggi, e detta per questo PISTO, poteva essere ulteriormente raffinata grazieall’utilizzo di un terzo tipo di magli (PILA AD AFFIORARE) che, privi di chiodi, garantivano una maggiore omogeneizzazione dell’impasto.

Nei periodi con abbondante disponibilità di acqua il pisto trattato con la pila a raffinare poteva non essere sottoposto al trattamentodella terza pila, bensì essere disidratato sotto forma di singole “pizze”che, immagazzinate, servivano da scorta in caso di necessità; nei periodi con scarsa disponibilità di acqua queste venivano reidratate e raffinate nella pila ad affiorare per poi proseguire nel normale processo produttivo.

Affinchéle fibre cellulosiche, che in questa fase hanno una consistenza lattiginosa, diventino un FOGLIO,devono essere unite tra loro. Questo processo, che avviene per sottrazione d’acqua, è detto FELTRAZIONE e prevede il lavoro sincronico di due figure, il PRENDITORE e il PONITORE. La pasta di carta viene inserita in un TINO di forma rotonda e dotato alla base di un fornelletto per mantenere tiepida la temperatura del contenuto. Il prenditore ha il compito di prelevare la pasta dal tino con un utensile detto FORMA, ovvero un setaccio rettangolare costituito da una rete di sottili listelli di legno d’abete (COLONNELLI) con i quali si interseca un fitto reticolato di fili trasversali in ottone (VERGELLE). Quando il prenditore solleva la pasta dal tino l’acqua cola attraverso la rete ma le fibre, essendo solide, rimangono attaccate alle vergelle creando unostrato uniforme. Il setaccio viene inserito in una sorta di cornice mobile,detta CASCIO, che ha lo scopo di delinearne i bordi, dando nello stesso tempo le esatte dimensioni al foglio che si sta formando.

Guardando in controluce un foglio fabbricatoa partire dagli stracci con i metodi dell’epoca è possibile vedere i segni lasciati dal fitto reticolo metallico. L’idea di poter lasciare un segno indelebile fu sfruttato dai mastri chartai per rendere universalmente riconoscibile la provenienza, ma soprattutto la fabbrica, in cui era stato prodotto il foglio. Con un filo d’ottone veniva ricreata l’immagine scelta come marchio della propria impresa cartaia e, sfruttando il fenomeno della disidratazione su telaio, questa rimaneva impressa nel foglio. La figura in questione, anch’essa nettamente visibile in controluce, è chiamata FILIGRANA.

Una volta tolta la cornice subentra il ponitore che applica un feltro (da cui il nome di questa fase) sulla faccia della forma su cui si è creato il foglio e lo rigira su se stesso in modo tale da poter distaccare il telaio. Si avrà quindi una base di feltro su cui poggia il foglio ancora umidosul quale si poggerà un secondo strato di feltro che fungerà, a sua volta, da base per il foglio successivo.

Si prosegue in questo modo fino a sovrapporre cento fogli. A questo punto la pila formatasi viene posizionata sotto un TORCHIO A VITE per essere pressata così da eliminare l’acqua in eccesso. Grazie a questa prima DISIDRATAZIONE viene ridotto il contenuto di acqua di circa il 50 % e lo spessore della pila a un terzo dell’altezza iniziale. Questa fase, che ad un primo impatto può sembrare molto meccanica e poco complessa, rappresenta in realtà una fase critica del processo produttivo poichéè proprio nel momento di sottrazione dell’acqua che le fibre di cellulosa si uniscono e creano legami andando a garantire l’omogeneità e la resistenza della carta.

A questo punto i fogli impilati dovevano essere distaccati uno ad uno cercando, da una parte, di non romperli, poiché ancora umidi, e, dall’altra, di non rovinare il feltro che doveva essere riutilizzato. Per garantire la buona riuscita di questa fase lavoravano insieme tre figure: il LEVA FELTRO toglieva il feltro superiore e lo riponevainsieme agli altri feltri, che il ponitore utilizzerà nella creazione della pila successiva; il LEVATOREdistaccava il foglio dal feltro inferiore con la tecnica detta del “pizzico”e, aiutato dal TENITORE lo disponeva sulla pila dei fogli umidi, chiamata POSTONE. A volte la pila di soli fogli che si venivaa creare poteva essere sottoposta ad una seconda pressatura.

Al termine dell’operazione i fogli sono abbastanza resistenti per poter essere messi a essiccare negli STENDITOI, corde tese all’interno di ampie sale dotate di persiane di legno mobili che permettono, con una regolare circolazione d’aria, una veloce essiccazione.

Così restano per più giorni prima di passare alla rifinitura. I fogli ottenuti devono infatti essere allestiti, ovvero resi idonei per la scrittura. Questa fase era detta APPARECCHIATURA.

La carta, per essere utilizzata come materiale scrittorio, deve essere “collata”, ovvero subire un trattamento che faccia in modo che l’inchiostro venga trattenuto dalla superficie del foglio e non crei chiazze. La sostanza idrofoba utilizzata era una colla ottenuta dal “carnaccio”, nome con il quale si indicavano gli scarti di origine animale delle concerie. Questi venivano lavati e posti in una sorta di cesto, a sua volta inserito in un contenitore pieno d’acqua che doveva raggiungere in modo graduale i 90°C. Quando gli scarti avevano rilasciato tutto il materiale il cesto veniva sollevato, la mucillaggine residua rimossa e sostituita con nuovi scarti. Le sostanze rilasciate formavano il brodo che, bollendo, andava ad assumere una consistenza gelatinosa. Il composto veniva lasciato riposare per alcune ore in modo da permettere il depositarsi di eventuali impurità, eliminate definitivamente grazie ad un setaccio di canapa usato per filtrare il brodo e versarlo nella caldaia di deposito. Per aumentare il potere collante della gelatina e per rendere più chiaro il brodo veniva aggiunto in questa fase dell’allume di rocca nella proporzione dell’1% sul peso secco della gelatina.

La figura che subentra in questa fase di produzione è il COLLARO ovvero colui che esegue la COLLATURA. Unico strumento necessario era un contenitore, detto SECCHIA DEL COLLARO appunto, all’interno del quale veniva colata la quantità di gelatina necessariaa cinque o dieci fogli (in base alla GRAMMATURA, cioè alla pesantezza della carta). Una volta aggiunta dell’acqua la secchia veniva poggiata su un treppiede, sotto il quale si accendeva un fuoco, e si mescolava il tutto fino a raggiungere la temperatura di circa 40°C.

A questo punto il collaro inseriva il gruppo di fogli scelti nella secchia avendo cura, da una parte, di non lasciarli troppo a mollo e farli incollare l’uno all’altro ma, dall’altra, di garantire l’immersione completa e uniforme di ognuno.

I singoli fogli venivano così poggiati sul piano della PRESA A COLLARE e qui pressati, in modo graduale ma veloce, così da distribuire uniformemente la gelatina ed eliminare quella in eccesso che veniva raccolta in appositi contenitori di legno posti ai lati della pressa.

Tolti dalla pressa i fogli venivano appesi uno ad uno su delle corde,avendo cura di non farli attaccare fra di loro, e qui lasciati ad sciugare.

Una volta asciutti, ma non secchi, venivano raccolti e impilati.

L’ultimo controllo di qualità alla quale il foglio era sottoposto era detto CALANDRATURA e consisteva nella lisciatura e lucidatura di quest’ultimo. Gli strumenti utilizzati erano un raschietto e una pietra focaia (o di selce odi agata) che venivano sfregati sul foglio adagiato su un piano morbido, spesso rivestito di pelle di montone. Questa operazione non avveniva necessariamente all’interno delle gualchiere, bensì poteva essere svolto anche da operaie in appositi locali, le “chambore”,situate nel centro urbano, all’interno delle mura.

Il foglio perdeva così la ruvidità ottenuta dalla fabbricazione in tino e risultava lucido e liscio, adatto all’utilizzo dell’inchiostro.

Per finire, i fogli ottenuti venivano selezionati: i campioni difettosi venivano messi da parte per essere riciclati nella pasta, mentre i fogli accettabili erano divisi secondo cinque gradi di qualità, di cui solo i primi due considerati adatti alla scrittura.

Terminato il ciclo di produzione della carta, i fogli risultati buoni venivano contati, piegati e raggruppati in venti fascicoli ciascuno composto da venticinque fogli così da creare una risma di cinquecento fogli. Queste, imballate con la carta grossolana ricavata dagli stracci di scarto e tenute insieme con delle corde, venivano spedite nei maggiori centri di consumo, italiani ed europei, oppure immagazzinate in locali freschi e asciutti.